Le cronache recenti insegnano che occorre sottrarre l’ambiente e le giuste battaglie ambientali al furore ideologico di quei gruppetti di fanatici che ritengono che la natura sia “cosa loro” e che la sensibilizzazione verso questi temi passi attraverso atti di teppismo e di violenza contro il patrimonio culturale.
I “gesti” di questi ultimi mesi dei sedicenti attivisti che pensano sia giusto e doveroso imbrattare con vernice colorata opere d’arte ed edifici storici in quanto simboli del potere non sono solamente sbagliati perché violenti, ma danno la misura di una visione ignorante e conformista, figlia di uno pseudo ambientalismo a cui non importa nulla di offendere l’arte, la bellezza, la storia, la cultura, pur di affermare la propria ideologia unilaterale e settaria. Ideologia che, beninteso, con la natura e con i valori profondi e antichi che questa reca con sé non ha decisamente nulla a che vedere.
Quel che offende sono anche certi (fortunatamente pochi) intellettuali di una sinistra progressista che non ha null’altro da dire se non assolvere clamorosamente simili comportamenti e invitare le istituzioni a “comprendere e ascoltare questi ragazzi”. In ciò, a ben guardare, c’è il solito vizio di quell’intellighenzia dei salotti buoni(sti) che da sempre annovera al proprio interno professoroni col giusto pedigree, scrittori osannati, giornalisti di tendenza, sociologi de noartri e altre categorie di varia fauna che non hanno altro da fare se non diffondere ai quattro venti il verbo del “politicamente corretto” e di ciò che è da bollare come giusto o sbagliato, ovviamente a seconda se aderisca o meno alla propria dogmatica visione. È in piccolo la stessa triste logica che spinse negli anni settanta una serie di cosiddetti intellettuali (cambiano le epoche ma la categoria a cui appartengono i protagonisti di simili atteggiamenti è sempre la stessa) a tollerare e, in un certo senso, assolvere i terroristi delle Brigate Rosse, definendoli “compagni che sbagliano” e giustificando, di fatto, anche le premesse ideologiche del terrorismo, mediante la formula “né con lo Stato né con le Br”. Anche stavolta saranno evidentemente compagni che sbagliano. Da comprendere, da sostenere, se non in modo diretto quantomeno strizzandolo loro l’occhiolino.
Il fatto che anche nel panorama politico italiano non manchino le tesi assolutorie o giustificazioniste verso gli imbrattatori del patrimonio artistico e monumentale, poi la dice tutta sui limiti di una certa politica ben definita, incapace di guardare alla bellezza e all’educazione come fattore determinante di un popolo. Una visione che odia la cultura, perché è incapace di guardare ad essa se non come luogo di affermazione delle proprie tesi ideologiche. E anche l’ambiente per costoro non fa certo eccezione.
A ben guardare, il vero limite di un ambientalismo a senso unico è l’incapacità di vivere la natura come espressione del Creato e dunque di principi perenni e immutabili. La profonda contraddizione di un tale limite fa sì che le battaglie ambientaliste, infatti, siano il più delle volte figlie di quella medesima visione globalista che altro non è che la principale responsabile della distruzione ambientale su scala planetaria. Eppure, proprio l’ambiente sfugge alle categorie ristrette delle ideologie a buon mercato e richiama in modo evidente – per dirla con Franco Cardini – “la connessione tra la natura, manifestazione perenne della creazione, e la perpetuazione delle forme viventi, a cominciare dall’uomo”.
Con buona pace di Greta Thunberg e delle mobilitazioni internazionali (o forse sarebbe meglio chiamarle multinazionali), è proprio il globalismo il principale avversario della natura e con essa delle identità, dei popoli, della cultura, delle tradizioni, e in pratica di tutte quelle espressioni di appartenenza alle comunità e ai luoghi che al contrario sono le principali alleate della conservazione dell’ambiente e della loro armonizzazione con l’uomo. La vera rivoluzione sarebbe orientare i governi verso politiche che rechino con sé queste premesse. A questo proposito, non si può non essere d’accordo con Francesco Giubilei che, nel suo libro Conservare la natura ricorda che “è necessario un ambientalismo che nasca dal basso, dalle comunità, piuttosto che da imposizioni dello Stato, o, peggio ancora, di entità sovranazionali che intervengono modificando la vita dei cittadini, senza tenere in considerazione usi e costumi dei popoli, tradizioni locali. In poche parole, un ambientalismo globalista che ci vorrebbe tutti uguali dimenticando le identità locali fatte di particolarismi e di differenze”.
La trasformazione dell’uomo in consumatore planetario è anch’essa espressione di questa stessa impalcatura progressista, pronipote sia del collettivismo socialista di una volta che delle più recenti spinte neocapitaliste che, soprattutto negli ultimi tempi, hanno aperto la strada a un individualismo portato all’estremo, nel quale ciò che conta è che l’umanità globale venga identificata come mero insieme di individui, uniti solamente da poche, ma ben calibrate parole d’ordine (anch’esse neanche a dirlo globalizzate), quali “inclusione”, “fluidità”, “resilienza”, “coesione”, "sostenibilità", “condivisione” e altre simili che sostanzialmente possono facilmente essere manipolate, rassomigliando sempre di più a vuoti slogan o a formulette prefabbricate.
Occorre, dunque, liberare l’ambiente dall’ambientalismo, dall’individualismo e dalle ideologie new-global, tanto care alla sinistra post-marxista, riabbracciare il senso più autentico di comunità e tornare a vivere e a vedere la natura come spazio sacro, luogo di incontro di energie, possibilità di sintesi perenne fra Terra e Cielo. Luogo nel quale l’uomo e gli altri esseri viventi coabitino in armonia, riaffermando quel patto antico di migliaia e migliaia di anni – mai scritto, ma vissuto naturalmente per molto tempo – fra le forme viventi che (ciascuna mediante i propri codici) realizzano se stesse e la loro dinamica esistenziale sulla Terra e al cospetto della volta celeste.
Alberto Samonà