Potrebbe essere proprio questo l’incipit dell’esposizione che si è aperta in queste ore a Roma alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, su iniziativa del Ministero della Cultura, per raccontare J R R Tolkien a cinquant’anni dalla morte e dalla prima pubblicazione de “Lo Hobbit”.
Che non si tratti solo di una citazione proveniente direttamente dalla Terra di Mezzo, lo dimostra il fatto che nel mare magnum degli articoli e delle recensioni fin qui lette, il dato più o meno comune è la lettura “politica” data da molti a questa mostra. L’esser stata poi tenuta a battesimo direttamente dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni, insieme al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, aggiunge quel tassello che permetterebbe di completare il mosaico o di apporre l’ultima nota a una partitura che secondo alcuni osservatori sarebbe già scritta.
Alla luce di questo, appare un po’ riduttivo quanto scrive Flavia Perina su “La Stampa” e cioè che siccome “il ventennio berlusconiano ha azzerato i riferimenti, modificando i gusti, formato due o tre generazioni di pubblico di destra, innamorato della battuta grassa e delle fiction zuccherose”, allora la mostra su Tolkien può rappresentare la fuoriuscita da tutto questo per una destra che riparte dai propri riferimenti: “Lo sforzo di condurre il suo più largo pubblico oltre il mood retequattrista”. Una specie di ritorno al passato, secondo tale tesi, insomma, come se si fosse premuto simbolicamente un tasto che riavvolge il nastro al mondo prima del ’94, prima della discesa in campo di Berlusconi e delle mutazioni che la destra italiana ha inevitabilmente vissuto in questo trentennio.
A ben guardare, la realtà è più complessa e la cartina tornasole è data da ciò che della mostra si pensa negli eleganti salotti radical chic della sinistra che conta, fra coloro cioè che ritengono se stessi l’intellighenzia del Paese (la Nazione è un’altra cosa): il segnale d’allarme lanciato in modo non troppo velato è, secondo questi signori, che l’esposizione su Tolkien sia sostanzialmente il prodotto di un’operazione volta ad accreditare la destra italiana come un “luogo” (metapolitico ovviamente, anche se il termine è bandito dai frequentatori di siffatti salotti) in cui la cultura è di casa. Insomma, il pericolo paventato è che l’attuale governo non si limiti a dare esclusivamente l’indirizzo politico all’Italia (cosa già molto grave per costoro), ma lo faccia partendo da solide radici culturali, da autori che nella storia ne hanno incarnato il pensiero e da un’azione politico-culturale che non badi soltanto all’effimero e all’egemonica “occupazione” dei posti disponibili, ma sia mossa da una visione del mondo. E questo comporterebbe un bel problema per gli anni che si preparano, visto che notoriamente le idee sono ben più difficili da scardinare rispetto a un governo di qualsivoglia colore.
C’è il timore, dai nipotini dell’egemonia culturale di gramsciana memoria – abilmente attuata dal secondo dopoguerra per tutto il cinquantennio a venire e in molti settori fino a poco fa – che la destra italiana esca fuori, in maniera evidente e rumorosa, dai cliché eteroimposti e impacchettati ad arte secondo cui la destra stessa sarebbe nient’altro che una sorta di suburra abitualmente frequentata da teppisti, ultras da tafferuglio di piazza, post-naziskin dalle pance gonfie di birra e razzisti suprematisti e ovviamente omofobi. In poche parole, la paura è che l’opinione pubblica si accorga dell’esistenza di una destra delle idee molto ben radicata in Italia, con solidi riferimenti filosofici, letterari, poetici, artistici, che non soltanto non ha più il complesso d’inferiorità della sinistra egemone, ma che divenga riconoscibile tanto dalle avanguardie culturali (sì, esistono ancora) che dalla gente comune. Il segno, dunque, che il dogma è infranto e che la verità dogmatica, un tempo insindacabile, adesso vacilli, con il concreto rischio che si sfracelli al suolo, divenendo infine fetida poltiglia.
E dunque, che fare per scongiurare siffatta sciagura? Il gioco è semplice: come in passato avvenuto già più volte anche con altri autori, tentare di ascrivere Tolkien e i suoi hobbit fra i miti della sinistra o di una visione globalista e progressista. E non è un caso che Repubblica – come ben fa notare Maurizio Crippa sul quotidiano Il Foglio – sostanzialmente parli oggi di una sorta di scippo di Tolkien da parte delle destre, mentre al contrario questi sarebbe una specie di padre nobile della visione libertaria dei figli dei fiori e il “Signore degli Anelli” addirittura la “bibbia degli hippies”. Simile tentativo tralascia abilmente di specificare che tutt'al più questo è forse avvenuto negli USA degli anni 70 e non certo in Italia. E d'altronde, è noto che l’autore de Lo Hobbit fosse, al contrario di come lo vorrebbe dipingere la sinistra del post-umanesimo, un fervente cattolico, difensore della Tradizione, dai solidi principi conservatori e che tutta la sua Opera sia improntata all’affermazione di una visione tradizionale del mondo, abitata da valori antichi da frapporre alla decadenza esistenziale dei tempi moderni. E non è un caso che, nonostante i più o meno recenti tentativi del collettivo Wu Ming di far passare l’idea di un Tolkien progressista, negli anni settanta la sinistra ortodossa di scuola comunista – come giustamente osserva ancora Crippa – lo reputasse una sorta di pericoloso alieno nazistoide. E il compagno Elio Vittorini, non per incidente ma per scelta scientifica, come già aveva fatto con Il Gattopardo, sconsigliò a Mondadori di pubblicare il Signore degli Anelli, che venne poi edito da Rusconi.
Peraltro, come si scriveva prima, è cosa nota che quando a sinistra non si è riusciti a boicottare gli autori ritenuti pericolosamente in odore di destra, allora l’operazione sia stata il tentare di arruolarli postumi tra le file dei fautori del sacro credo ora comunista, ora libertario, ora socialista, ora progressista, ora newglobal. Basti qui citare gli esempi di Louis-Ferdinand Celine, Yukio Mishima, Jorge Luis Borges, Luigi Pirandello, William Butler Yeats e non per ultimo, lo stesso Tomasi di Lampedusa (passato nelle schiere dei buoni dopo la chirurgica riduzione cinematografica del comunista Luchino Visconti). C’è mancato poco che ciò avvenisse anche con Ezra Pound, ma in tal caso – vista l’evidente impossibilità storica di ascriverlo fra i collettivi democratici e antifa – ci si è limitati a separare artatamente l’uomo dalla sua opera.
E perciò, è giusto affermare che Tolkien “non appartiene alla destra ma è patrimonio di tutti”, poiché egli fu un grande esponente della cultura europea del Novecento, espressione di una letteratura del Mito, che per sua stessa definizione rifugge dalle categorie storiche. Testimone vivente, con la sua Opera, di principi universali, evidenziati da come questa esprima il Sacro, la comunità, il confronto luce-ombra, la ciclicità dei tempi e i simboli che contrassegnano l’incontro fra dimensioni che si sovrappongono in un presente metastorico, ideale e fantastico.
I tempi sono maturi perché Tolkien divenga di tutti. Così come altri grandi. E che il pensiero di costoro esca dai “campi hobbit” dell’elaborazione intellettuale, per diventare patrimonio nazionale ed europeo. Patrimoni immateriali della Cultura. Bisogna, tuttavia, fare attenzione a non incorrere nell’errore opposto di tentare di giustificarsi o di smarcarsi, facendo passare questo grande scrittore del Novecento per una sorta di autore buono per tutte le stagioni: in una parola, si eviti di cedere pezzi di identità al buonismo e al relativismo. Tolkien è universale. Rifugge dagli schemi, sia piccoli che grandi, ma non è ascrivibile né alle mode neoprog e neanche al calderone già pieno di roba del “pensiero debole”. Tolkien è come Gandalf: è vivo e lotta insieme a noi!