C’è una profonda e ontologica differenza fra una cosa inanimata e un’opera d’arte. Ed è un fatto che da tempo oramai nel panorama contemporaneo, non solo artistico, a predominare sia la vocazione al nulla. In una società sempre più permeata di individualismo (che ha talvolta le fattezze di un neo-collettivismo 5.0) e di parole d’ordine di largo consumo, non c’è spazio per grandi correnti culturali o movimenti artistici che lascino il segno, ma semmai la tendenza costante è un divenire sempre più figlio di un “carpe diem” che, come un vasetto di yogurt, ha scadenza breve e deve essere consumato in poco tempo.
Manierismo, Naturalismo, Barocco, Neoclassicismo, Impressionismo, Simbolismo, Cubismo, Liberty, Futurismo, Dadaismo, Surrealismo, Metafisica e molte altre correnti (finanche la Pop Art) che in ogni epoca si sono affermate nel solco della propria contemporaneità appartengono alla storia dell’arte e alla sua dimensione immortale. Le visioni culturali, religiose, filosofiche, interiori o politiche che furono alla base di varie tendenze artistiche, costituirono a volte l’ossatura entro cui si mosse la mano dell’artista: di colui in grado di permeare la spinta creativa e creatrice che genera energia con genio e maestria: gli ingredienti, in sostanza, da cui nasce un’opera d’arte. E da cui sono nati capolavori assoluti che a distanza di secoli mantengono invariata la loro forza ed energia.
È dibattuto da tempo cosa si intenda per arte: un quesito che oggi, lungi dall'essere riproposto, può comunque dar vita ad alcune considerazioni, poiché non soltanto la bellezza pare non essere più un requisito, ma in generale il livello di ciò che viene proposto al pubblico appare in caduta libera, sempre più vittima delle pulsioni creatrici di singoli che (complici le recensioni entusiastiche) affermano il più delle volte unicamente se stessi o, peggio, si fanno strumenti dell’ideologia dominante e delle tendenze sociali più diffuse. Certi in questo modo di trovare terreno fertile, lisciando il pelo a critica e pubblico attraverso il largo uso di tutto l’armamentario del politically correct e di slogan reperiti facilmente al supermarket dei buoni sentimenti, da piazzare sistematicamente nel mercato delle idee “usa e getta”. Le opere di Bansky ne sono l’esempio più lampante: la finta trasgressione diviene megafono per affermare un’omologazione culturale su scala planetaria. L’opera d’arte lascia il posto all’intento dell’artista che è quello di far passare i propri messaggi che divengono modelli per un conformismo condiviso.
“È caduto il confine tra arte e non arte – fa notare Marcello Veneziani, citando Peter Burger – frutto della convinzione (ereditata dal ’68) che la creatività sia universale: tutti sono artisti, non ci sono più confini tra bello e brutto, tra valore e disvalore, tra genio e banalità. L’estetizzazione del mondo coincide con la democratizzazione dell’arte e produce la fine dell’arte. L’arte non è nell’opera ma nelle intenzioni del soggetto”. E lo stesso Veneziani fa notare come non sia un caso che, nel mondo attuale si parli sempre più di “installazioni” e sempre meno di opere d’arte.
Del resto, molto più semplice il mordi e fuggi rispetto alla complessità e alla permanenza. Ne è l’esempio la street art che, al di là degli stili differenti di ciascuno dei suoi esponenti, nasce per non durare, affermando l’incertezza e la caducità quale forma espressiva finale e sostituendo il contingente e il divenire alla permanenza e all’essere. In questo vi è una differenza sostanziale con le opere d’arte collocate da millenni sulle strade o sulle piazze, poste nei luoghi per contrassegnarli e per esserne parte integrante, per interpretarne a volte il “genius loci” o per diventarlo simbolicamente esse stesse. È nell’energia che esprimono la vera differenza fra queste due visioni del mondo; l’opera d’arte in una piazza o in una via può essere una sorta di ierofania artistica che si manifesta in un luogo non casualmente, ma per la forza che nasce dall’incontro di questo con l’opera stessa. Ma oggi, sempre più spesso si afferma il suo opposto e il “prodotto finale” diviene portatore esclusivamente di “messaggi” e perde la sua forza innata per aderire allo scopo di appagare le pulsioni dell’artista e osannare il conformismo ideologico della società. Avviene la scomparsa dell’opera d’arte per far posto alla disgregazione nichilistica, che assurge a fine ultimo del relativismo a cui appartiene.
È la “sparizione dell’arte” di cui scriveva già a fine anni ottanta il filosofo e sociologo francese Jean Baudrillard. L’arte in definitiva scompare per far posto alla merce, estranea com’è oramai dall’evocazione del sublime e del bello. Ma non è soltanto questo, poiché a sparire in definitiva è l’uomo per far posto al consumatore, ma per questa strada nella sua visione tramontano anche la civiltà e la cultura. Oggi che gli anni di quello che venne, non a caso, chiamato consumismo appaiono lontani, siamo in una nuova era disgregante, dove all’umanesimo di un tempo si sostituisce il transumanesimo, ideologia dei tempi ultimi nella quale il prodotto (ancorché farcito di slogan figli del “pensiero debole”) si impone e si sostituisce, infine, all’opera d’arte e lo scopo è la disgregazione dell'uomo, per lo meno nella sua dimensione ontologica. Un’inversione di tendenza, però, è possibile: non mediante “guerre sante” o polemiche sterili da salotto tv di prima serata, ma guardando ad alcuni indicatori che appaiono interessanti e da incoraggiare: dalla street art di protesta e conformismo, giusto per citare un esempio, si distingue in modo netto il veneto Gianfranco Meggiato che pur dalla piazza indaga i temi centrali dell’esistenza con le sue gigantesche e futuribili sculture che parlano dell’uomo e del cosmo e che fanno capolino in diverse città del mondo.
Semi di una rinascita dell’arte cominciano a intravedersi e in questo ancora una volta in soccorso arriva la maestria e il genio italiano. È il caso di Jago, l'artista ciociaro che attraverso le sue sculture restituisce forma alla materia e indaga sia l’anima che l’umano a partire dalla pietra. Emblematica è l’opera “Habemus hominem” che dopo le dimissioni di Papa Benedetto XVI ci restituisce la sua profonda umanità. O “Il figlio velato”, nel quale l’artista rappresenta un bambino coperto da un velo e disteso. Dal Cristo velato della Cappella Sansevero di Napoli all’uomo contemporaneo il passo è breve e non è un passo di morte ma di rinascita, umana e spirituale. Il Sacro si afferma ancora una volta, anche attraverso la piena umanità dei soggetti ritratti. E del resto è lo stesso Jago a ricordarci che “la natività è in ogni opera che si fa, che si crea”. Il fatto che questo giovane e già affermatissimo scultore attragga per ogni sua esposizione migliaia di ragazzi è un indicatore sul fatto che al di là delle nubi di un presente incerto, c’è materia su cui lavorare.
Che l’arte contemporanea non debba per forza stupire o essere asservita ai luoghi comuni del presente ce lo dimostra la straordinaria vitalità culturale e intellettuale del Vittoriale degli Italiani, che con la presidenza di Giordano Bruno Guerri ha da tempo realizzato una piena armonia fra il contemporaneo e i suoi linguaggi espressivi e un luogo intriso di storia, ponendosi l’obiettivo pienamente condivisibile di “risuscitare l’arte”.
E della necessità di trovare la strada dell’armonia ci parla finanche Michelangelo Pistoletto, che ha da tempo elaborato ciò che egli ha definito “terzo paradiso”: “un concetto che nasce dall’idea che sia esistito un primo tempo dell’umanità, quando l’umanità era totalmente integrata nella natura. Poi è nato invece un secondo paradiso, in cui l’intelligenza umana ha sviluppato il mondo artificiale, che ha portato grandi progressi e meraviglie, ma da allora stiamo degradando definitivamente il mondo. il paradiso artificiale, sviluppato dall'intelligenza umana, fino alle dimensioni globali raggiunte oggi con la scienza e la tecnologia. Questo paradiso è fatto di bisogni artificiali, di prodotti artificiali, di comodità artificiali, di piaceri artificiali e di ogni altro genere di artificio. A questo punto dobbiamo prendere la responsabilità di mettere in equilibrio il primo paradiso, la natura, e il secondo paradiso, l’artificio, e al centro creare il terzo paradiso: l’equilibrio e l’armonia che ci permetteranno di sopravvivere”.
Al di là dei concetti espressi da quello che è stato uno dei protagonisti della cosiddetta “Arte povera”, è nella pratica che si realizza il cambiamento. A questo proposito, Pietrangelo Buttafuoco ci ricorda giustamente che “L’arte, in realtà, ha un solo senso: essere proiettata all’edificazione, alla crescita, alla maturità di chi ha la possibilità di apprezzarla e coglierne i significati” e in un recente intervento pubblico Alessandro Giuli, da nuovo presidente del MAXXI, osserva giustamente che "bisogna saper riconoscere che c’è un genio culturale che parte dall’antichità ma che arriva fino all’aerospazio, è questa la cultura che tra i più giovani può tornare a farsi forza per tornare ad avere una consapevolezza che sarà aggiornata ai tempi di adesso”.
Ecco, è proprio la consapevolezza ciò su cui si può lavorare (e tanto) per una rinascita artistica e culturale che esprima innanzitutto una rinascita dell'uomo. L’eutanasia e la morte dell’arte non sono, dunque, ineluttabili e se è vero che ogni epoca storica ha la propria arte che riflette del resto ogni società, è altrettanto vero che il genio italiano può recuperare energia vitale e riaffermarsi nel solco della nostra storia e della nostra identità. È una sfida aperta…
Alberto Samonà